First steps in Bolivia


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South America » Bolivia » Potosí Department » Uyuni
March 24th 2016
Published: April 17th 2016
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Prossima fermata Uyuni. E siccome morto un papa se ne fa un altro, papa dopo papa questa volta tocca a Carlos prendere l'eredità di Alessia. Il viaggio da San Pedro è lungo e scomodo, Carlos siede davanti con l'autista e si gira di tanto in tanto ad indicare tutti i punti della strada dove sono morte persone. Uyuni è il puntino di sabbia in un deserto di sale. La fatiscenza degli edifici di una delle gemme turistiche della Bolivia ci proietta subito nella nuova realtà aldilà del confine cileno. Musi lunghi e diffidenza marcano di netto la differenza di culture, sguardi, approcci al mondo esterno e vita in generale. Entriamo in territorio delle signore con i cappelli e il fazzoletto sulle spalle. Ed in questo territorio, Carlos non ha smesso un attimo di chiacchierare. Mi sento male, dice "è l'altura", no, sei tu. Il giorno dopo ci imbarchiamo sulla jeep per il salar. Metti tre giorni in macchina un cileno, una professoressa di arte argentina e tre boliviani, zio con due nipotini. Il cileno e la prof manco si presentano che già cominciano amorevolmente a battibeccare. Siamo partiti da meno di due ore, e già dobbiamo fare i turni per spartirci le chiacchiere di Carlos. Addentrarsi nel salar è come navigare su una nuvola al contrario, uno spazio bianco mozzafiato a perdita d'occhio e respiro, da un senso di profondità e libertà che sembra di volarci su quella nuvola fatta interamente di sale. Un paradiso di jeep che corrono su binari temporanei di tracce. E le notti passate negli ostelli di sale a morire di freddo e risate. Aldilà del salar, lagune colorate piene di minerali e fenicotteri riflessi nell'acqua. Deserti ed alberi di pietra. E Carlos, che parla! L' area dei geiser poi, è uno spettacolo che vale tutte le albe del mondo. Si passa dal paradiso del lago di sale, fino a salire ai 5000m dell'inferno, un brulicare di fanghi e getti di vapore che sbuffano fragorosi fuori dalla terra, illuminati dalle prime luci del sole che sorge. Il tutto condito da una compagnia che sembra uscita da una commedia di De Filippo a rendere tutto ancora più speciale. Anche il fatto che ci si fonde il motore è speciale, e Carlos, che litiga ai turisti che non rispettano le barriere di distanza con gli animali. Mi dirigo a Potosì, con quello che ormai è diventato mio marito dopo una settimana culo e camicia. Arriviamo la sera e cerchiamo alloggio con una coppia di colombiani, padre e figlia. Usciamo a comprare dell'acqua quando il tizio dell'ostello ci ferma, nessuno cammina a Potosì dopo le 11 di sera. Cominciamo bene. La città è sporca e bellissima, soffre di quel fascino particolare di decadenza che si riflette nella tristezza della sua storia. Centro del mondo un tempo, esercizio di povertà e disillusione ora. Il centro nevralgico nell'essenza di Potosì è la miniera. Saliamo sul micro dell'agenzia, tuti e 4. Una voce del nord mi giunge all'orecchio. La Signora Favalli III, un nuovo capitolo! Sulla via ci si ferma a comprare regali ai minatori, alcol, foglie di coca, dinamite. Il cerro rico è una montagna svuotata di un'anima, ma più si svuota e più si riempie di anime altrui, dai primi indigeni agli schiavi importati dall'Africa, dai peones fino ai giorni nostri. Lo chiamano "el tio" il diavolo, si è scavato tanto in cerca dell'argento da raggiungerlo nel buio di questa terra maledetta. Ed il tio si tratta con rispetto, se ne ha timore e con ragione, lo si venera quasi come un dio. Perché quando si entra nelle viscere della terra, in cunicoli senza luce ed aria, sono soli i minatori, loro e lui. La guida ci spiega tutti i rituali, dalla preghiera alla pachamama al "tio" fino alle superstizioni sulle donne in miniera. Ci sono 5 livelli in questi tunnel pieni di acqua e polvere, che sembrano caderti addosso da un momento all'altro. Noi scendiamo fino al secondo livello dove la temperatura comincia già a salire. La discesa è da cardiopalma. Il tunnel si stringe sempre di più fino a costringerci carponi, camminando alla luce delle lampade. l'aria si fa più densa ed il caldo intenso. Incontriamo due minatori che risalgono, la guida ci spiega che fanno turni di 4 ore, fino a pochi anni fa erano 8 senza pausa pranzo. Nessuno risale alla superficie per mangiare un panino, per questo si masticano foglie di coca, per resistere a fame e fatica. Non si vive molto in miniera, la silicosi ti rovina già prima dei trenta. Questo tour è uno shock che incupisce ancora di più un' atmosfera già grigia. Saluto Carlos, o meglio lui sparisce in maniera teatrale, come si addice al personaggio, e proseguo con la solista Alessia e Daniela, sua amica. Il giorno dopo ci spostiamo verso Sucre, dove ci confronteremo con un pezzo di autentica Bolivia. Lo sciopero! Il bus ci porta fino al blocco, da lì camminiamo per circa 40 minuti. Il dopo è un terno all'otto che vinciamo grazie ad una signora. Fa la spia e ci indica una via alternativa da dove possiamo prendere un bus. Chiamiamolo bus, che passa per strapiombi, strade di campagna, fiumi, galline. Baciato il terreno di Sucre, perché ancora non sappiamo cosa ci aspetta, andiamo in ostello. E poi un altro ostello, perché tempo una notte e ci caccia, ree di aver fatto amicizia con altri ospiti e di fermarci a parlare con loro in cucina la sera. Sucre è la città bianca. Coloniale ed elegante. Tra tutte le sue bellezze quella suprema rimane il mercato centrale, con i suoi jugo naturales e insalate di frutta che manco il nome ho mai sentito. Il mercato di Sucre sono teste di vacca sui banconi e signore anziane sedute su sgabelli che vendono 4 pesche, 10 mele, o manciate di fichi sciapi. Spaccato di una Bolivia che comincia ad entrarti dentro come un ciclone, diffidente e timida. E che sa anche farti rodere il culo. Cinque giorni bloccate in città senza potersi muovere, fortuna in compagnia di bella gente. Ma intanto il carnevale impazza, e mentre i nostri nuovi amici cileni provano l'impresa di raggiungere Cochabamba, noi aspettiamo e marciamo con il nostro ostello, pieno di francesi, per le strade della città accompagnate da una banda. La gente ci tira di tutto, soprattutto palloncini pieni di acqua. Spero. Al quinto giorno decidiamo di tentare anche noi la fortuna, direzione Copacabana. E come ci andrà?????


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