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La visita ad Andorra ha prodotto risultati devastanti. Per la seconda volta in meno di un anno il rapido cambio di altitudine e il conseguente cambio di pressione hanno ridotto il mio corpo ad un ammasso di macerie. Dev’essere qualcosa collegato ai condotti nasali e uditivi e forse dovrei consultare un medico. Ma, tant’è, la due giorni Andorrana si è trasformata in un incubo. Poche ore dopo il mio arrivo a La Vella ho incominciato ad accusare malori che mi hanno costretto dapprima a una visita in farmacia e quindi alla resa totale accettando alloggio in un hotel da 50 euro a notte pur di potermi difendere dagli ormai incontrollati tremori della febbre. E vi assicuro che in normali circostanze mi farei tagliare un piede piuttosto che sborsare 50 euro per un letto.
Al
Sant Jaume, l’hotel dove avevo riparato in piena emergenza, José, il receptionist Cileno, forse annoiato da un inverno tanto parco di turisti, aveva incominciato una lunga e, in altre circostanze interessante, conversazione a proposito della vita ad Andorra. So per esperienza che dove davvero si apprende è parlando con gli impiegati di pensioni, bar e altri centri di frequente contatto col pubblico. Se c’è qualcosa che
davvero vale la pena conoscere in un luogo, questo è il tipo di gente che lo sa e se c’è modo di ottenere certo tipo di informazione è proprio entrando in franca confidenza con essi. Eppure stavolta non potevo. Le parole di José si perdevano nel ricettacolo in ebollizione che era ormai il mio cervello e le risposte venivano fuori lente e incoerenti. Ritiratomi in camera, la febbre era ormai talmente alta, il tremore tanto violento che, avessi avuto energie sufficienti a lavarmi i denti, avrei potuto farlo senza necessità di muovere il braccio.
A letto, totalmente abbigliato, riscaldamento al massimo e con indosso tutte le coperte su cui ero riuscito a mettere le mani, tremavo di freddo mentre la mente vagava incontrollata. Ho vaghi ricordi di quei momenti, foschi come quelli che si hanno di un sogno al risveglio. Poi il sonno arrivò davvero, quindi i sogni. E con essi arrivò la donna dei sogni. La donna dei sogni è quell’amore mai terminato o forse mai davvero incominciato, conosciuto in un qualche momento, a cui si pensa spesso nel corso della vita, soprattutto nei momenti di malinconia. E lei, nei miei deliri, mi diceva che non ero solo.
Poi, dopo un tempo apparentemente infinito ma che in realtà era durato solo tre ore, il risveglio. Fine dei sogni indotti dalla febbre. Lei non era più con me e, Si, ero solo. Solo in una pozza di sudore. Aspirine e piumoni avevano evidentemente fatto effetto. La febbre temporaneamente lavata via col sudore e con essa il mio corpo drenato di ogni energia.
Debole ma con un auto a noleggio da restituire 200 Km più a nord. Durante il viaggio di ritorno verso Carcassone, il paesaggio già visto all’andata non riusciva a distogliermi dall’idea di lei, del suo bel sorriso e di quante e quali le conseguenze dell’amore siano. Nei miei viaggi ho mille volte dovuto ascoltare gente superficiale (tutti maschi, occhio) la cui unica idea di viaggio radica nell’incontro sessuale col maggior numero possibile di rappresentanti dell’altro sesso. Secondo tali persone, applicando la proprietà transitiva suppongo, il viaggiatore è un tipo costantemente felice che suona l’armonica, beve come un Cosacco e ha una donna in ogni città. Uno che avrebbe bisogno di tanti preservativi che -volesse comprarli (ma naturalmente non vuole perché è così felice e leggiadro da non temere malattie)- dovrebbe chiedere un mutuo in banca. Ma
così non è. Può a volte risultare vero nella sostanza, ma poi, nel fondo, nessun uomo savio -nomade o stanziale che sia- cambierebbe mille amori di una notte per un amore di mille notti. Pensieri tristi accompagnati da acqua, banane e aspirine, la dieta del malato. Manco il cibo a consolarmi!
Recuperatomi dall’improvvisa febbre (e dalla malinconia), riprendo il viaggio in treno verso la Spagna. Entro nel Paese Basco, tristemente famoso per il gruppo terrorista ETA. Devo confessare che tre anni vissuti nelle isole Canarie e uno meno recente in Castiglia avevano creato nella mia mente la falsa immagine del Basco bruto, guerrafondaio e pronto a spararti un colpo alla nuca se contrariato. Come sempre succede, tale manicheismo è patrimonio unico ed esclusivo di coloro che mai hanno messo piede nel Paese Basco e che basano la propria opinione sul latte succhiato dal capezzolo di mamma televisione, il vero cancro della nostra società. Le immagini ripetute mille volte di un autobus dato alle fiamme sono potenti e finiscono con l’acquistare lo status di verità assoluta. Detto questo, il problema ETA esiste davvero, ma le prime vittime del loro fanatismo, quelli che giornalmente vivono a contatto con tale realtà, sono
i Baschi stessi.
Di grande interesse è la discussione sull’uso della lingua locale. L’euskera (Euskadi è il nome della regione in lingua basca) rappresenta un caso del tutto distinto dal catalano (la Catalogna è l’altra regione spagnola pervasa da un forte movimento indipendentista): mentre il catalano è una lingua romanza e sotto certi aspetti tanto simile allo spagnolo da venir considerata da alcuni (non dai filo-indipendentisti, chiaramente) come un dialetto di quest’ultimo, l’euskera non è relazionata a nessuno dei gruppi linguistici conosciuti. La sua origine un mistero che si perde nei silenzi della preistoria. Il suono è secco e la grafia presenta più K di un manifesto anarchico. Per i non iniziati è dura e infatti sono riuscito ad impararne una sola parola:
eskerrikasko (grazie). Eppure, contrariamente a quanto accade in Catalogna, dove più di una volta in passato sono stato ripreso dall’intollerante di turno per essermi permesso di parlargli “nella lingua dell’invasore” (lo Spagnolo, ndr), nessun Basco si è rifiutato di conversare con me in spagnolo, né mi è parso perciò offeso o contrariato. È vero che la regione è tappezzata di manifesti che invitano la popolazione ad imparare l’euskera -la lingua rappresenta sempre una potente arma politica-
ma credo che nemmeno il comandante in capo di ETA in persona cercherebbe di convincere uno straniero a dedicare anni allo studio di una lingua parlata da meno di un milione di persone anziché a quello dello spagnolo, parlato da circa 400 milioni di persone nel mondo.
Una sera, passeggiando lungo la bellissima playa de la Concha di San Sebastian, mi sorprende un violento temporale. Cerco rifugio sotto un porticato, la furia degli elementi è tale da sconsigliare sortita alcuna, la pioggia talmente intensa da creare un effetto tendina fra il porticato stesso e la baia prospiciente. Cerco di catturare in foto tale spettacolo quando una voce proveniente da un angolo buio mi chiama. È un uomo di mezz’età che sta preparandosi il giaciglio per la notte all’addiaccio: un senzatetto. Mi chiede con fare poco amichevole cosa stia facendo lì e perché non abbia chiesto permesso per fotografarlo. Gli rispondo che non sto fotografando lui e che anzi non lo avevo neppure visto. L’uomo crede alla mia buona fede, si rilassa e il tono cambia da interrogatorio a conversativo. È Greco, si fa chiamare Pin-Pon, parla quattro lingue incluso l’italiano e ci tiene a precisare d’essere un vagabondo, non
un barbone. Mi racconta della sua vita e dei suoi viaggi in giro per l’Europa, porta con se un’armonica (quindi la leggenda non è del tutto infondata…) e si finanzia con quello che ricava dai suoi improvvisati concerti. Due sostanziali differenze fra Pin-Pon e ogni altro senzatetto conosciuto fino a data odierna: a) Pin-Pon sembra essere una persona che, pur privo di mezzi, non trascura l’igiene personale. Anzi, grazie alla mia pelandronagginite da viaggiatore sporco e auto-giustificante, sono sicuro che se salissimo contemporaneamente sullo stesso bus e i restanti passeggeri fossero chiamati a scegliere tra noi due (tipo Gesù vs Barabba) l’indesiderato da lasciare a piedi, sarei io quello indicato come puzzone antisociale del giorno. b) Non solo non mi ha chiesto denaro, ha persino declinato il mio invito a cena.
Alla fine tira fuori l’armonica e suona un pezzo dei Pink Floyd. Poi, riposto lo strumento, un’ombra sembra offuscarlo. È solo un momento, poi dice -alla notte più che a me-: “questa canzone mi ricorda una ragazza…”. Ti capisco amico mio, ti capisco.
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Marcolitaliano
Marcoelitaliano
Grandissimo!
Autore: Markpenn Data: 17 Febbraio 2007 amico, come posso non gustarmi le tue ultime prodezze avendo tutto sommato da pochissimo tempo passato delle giornate in quasi tutti i luoghi da te indicati?x tale motivo mi sembra veramente di vederti ogni volta...l'obbrobrio commerciale di andorra, che forse ti ha causato la febbre; la meraviglia di carcassonne e l'incanto della playa de la concha a san sebastian, magari se rivedi le mie foto sei passato proprio in quei punti esatti? ma lo stesso viaggio con persone diverse diventa un altro viaggio, per nostra fortuna! continua così! ciao m.