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Due sono i motivi che spingono un forestiero a viaggiare ad Andorra: sciare o fare shopping. Io sono un cesso sugli sci e odio fare shopping. Eppure…
Andorra è un Paese di dimensioni lillipuziane, 40 chilometri in tutto dal confine sud (quello con la Spagna) a quello di Pas de la Casa che la separa dalla Francia. Quest’ultimo si trova oltre i 2000 metri d’altitudine e, contrariamente a quanto accade per quello spagnolo, rappresenta una vera barriera fisica. I collegamenti da e per Andorra sono conseguentemente buoni con la Spagna ma quasi inesistenti con il vicino d’oltrepireneo. Partendo da Carcassone e non disponendo di auto privata bisognerebbe viaggiare prima fino a Tolosa, 100 chilometri a nord-ovest, per poi sperare nello sporadico servizio bus e coprire così altri 200 chilometri in direzione sud. Poco pratico. E così nasce l’idea di noleggiare una modesta utilitaria per un paio di giorni oltre confine. Il prezzo era accessibile, la neve assente.
Dopo un primo breve tratto di pianura in autostrada, la strada incomincia a salire, dolcemente prima, quindi in ripidi tornanti che spesso finiscono col costringermi alla seconda marcia. Attraverso il Midi Pyrenees Francese e le cittadine diventano paesi e poi caratteristici villaggi
di montagna man mano che la lingua d’asfalto si fa strada tra i monti. Raggiungo il confine andorrano, rallento ma un infreddolito agente francese mi fa segno di passare. In effetti qui, a causa del
duty free, controllano i veicoli in uscita da Andorra ma non quelli in entrata. Superato il confine mi fermo ad Andorra 2000, centro sciistico di prima classe caratterizzato da “neve e sole” come recita lo slogan all’entrata. In realtà la giornata s’è rannuvolata e di neve ce ne sono solo pochi centimetri sulle piste semideserte. Un inverno così dev’essere una vera iattura per un turismo basato su neve e sci.
Arrivo finalmente a La Vella, congestionatissima capitale del Paese. Se mai decideste di visitarla, vi raccomando di non farlo in auto: è come prendere il ferry per attraversare una piscina. Dopo un’ora a velocità di lumaca, abbandono finalmente la mia verde Skoda Felicia in un parcheggio a pagamento (più esattamente dovrebbe definirsi “a estorsione”) e rendo la consueta visita al locale ufficio del turismo. Ed è qui che scopro le due ragioni menzionate nel paragrafo d’apertura. Solo che di neve non ce n’è… resta lo shopping. La gentilissima impiegata dell’ufficio del turismo ce la
mette tutta nell’elogiare il fascino di questo internazionalmente famoso quartiere dello shopping andorrano “dove si possono trovare tanto gli atelier degli stilisti più esclusivi come i negozi delle maggiori catene internazionali”. Una specie di Piccadilly, insomma. Ma io e lo shopping…
Partiamo da questo assioma: io compro un capo di abbigliamento solo quando non ho niente da indossare. “Niente da indossare” potrebbe interpretarsi come “niente che faccia gioco con quei mocassini neri”. No, nel mio caso va preso alla lettera. Quando il mio unico paio di jeans ha più oblò che un transatlantico, quando le mie uniche scarpe non hanno più suola, quando la mia t-shirt è ormai incolore e quasi trasparente, quello è il momento in cui vado a fare shopping. E anche in quel caso si tratta di un’esperienza del tutto trascurabile: scelta dell’ora in cui il minor numero di persone va a far shopping, un unico negozio che abbia tutto ciò di cui ho bisogno, entrata, razzia di quei due o tre capi papabili, rapida prova e altrettanto rapido acquisto. Il tutto dura solo una mezz’ora, eppure ogni volta che devo, faccio del mio meglio per procrastinare tale evento a tempo indeterminato. E non si tratta
di un costume acquisito in età adulta. Credo d’essere stato uno dei pochissimi adolescenti che non solo non chiedeva mai vestiti nuovi ma che anzi doveva essere periodicamente costretto dalla madre a comprarne.
Capitolo regali. A quello stesso periodo adolescenziale risale il mio codice morale di leggi del regalo: 1) Indipendentemente dal destinatario del regalo, questo deve consistere in un CD; 2) Indipendentemente dai gusti musicali del destinatario, tale CD deve piacere al sottoscritto così da poterlo successivamente prendere in prestito per registrarlo su cassetta (era l’era pre-internet e pre-Nero); 3) Restano esclusi dai punti 1 e 2 eventuali amici sordi. Col progressivo scivolamento del mio interesse dalla musica alla letteratura tale codice finì col risultare obsoleto ed essere infine sostituito da uno nuovo: 1) Indipendentemente dal destinatario del regalo, questo deve consistere in un libro; 2) Indipendentemente dai gusti letterari del destinatario, tale libro deve piacere al sottoscritto così da poterlo successivamente prendere in prestito per leggerlo; 3) Restano esclusi dai punti 1 e 2 eventuali amici ciechi e/o analfabeti. E il sistema aveva funzionato per anni. Finché…
Cosa regalare a un bimbo di tre mesi d’età? I miei amici Soraya e Antonio erano da poco diventati
genitori e io tornavo per la prima volta sull’isola (Gran Canaria, dove vivevo). Attenendomi al suddetto codice -per la prima volta dalla sua istituzione- mi trovavo di fronte al caso 3. Con tre mesi di età il pargolo era decisamente analfabeta. L’idea di presentarmi con un’edizione illustrata di “Robinson Crusoe” come regalo per il neonato mi stuzzicava, “in fondo”, ragionavo, “non resterà analfabeta per sempre”. Ma presto ricapacitai, immaginando che il lattante avrebbe ingerito il libro succhiandone gli angoli prima di raggiungere un’età in cui avrebbe potuto leggerlo. Idea scartata. Non restava altra cosa che far visita al negozio di abbigliamento.
Stessa tattica di sempre: ora propizia e negozio apparentemente ben fornito. Stavolta però, non avendo idea di cosa indossino i neonati, sono costretto a chiedere ausilio alla commessa. Mi riceve una ventenne di bell’aspetto e occhi blu.
“Posso aiutarla?”
“Si, vorrei comprare un regalo per un bambino.”
“Bene, quanti anni ha il bimbo?”
“Tre mesi.”
“Ma… a tre mesi non è un bimbo.”
“È quello che gli dico io al mattino quando non vuole alzarsi per andare a lavorare in miniera.”
La giovane commessa sorride amabilmente, poi riprende: “Volevo dire che a tre mesi si considerano bebé e
noi non vendiamo abbigliamento per bebé, deve rivolgersi a un negozio specializzato in accessori per il neonato”.
Notizia inedita. Tale scoperta mette in discussione la mia precedente convinzione che l’unico accessorio riguardante il neonato fosse il pannolino.
Scena seconda: negozio di abbigliamento ed accessori per il neonato. Altra commessa, leggermente meno giovane e meno carina della prima.
“Posso aiutarla?”
“Si, stavo cercando un regalo per un bebé di tre mesi d’età”
“Maschietto o femminuccia?”
Ecco fatto, adesso che so che è un bebé e non un bimbo non ne conosco il sesso.
“Non avete qualcosa di neutro?”
“Come neutro?” mi chiede la commessa esterrefatta.
“Voglio dire né azzurro né rosa, qualcosa nero per esempio, è che non so se è maschio o femmina”.
L’espressione della commessa passa dall’esterrefatto allo sbigottito: “Nero????”
“Perché no? E se fosse ermafrodita?” sento che sto per raggiungere quel punto di non ritorno oltre il quale non riesco a mantenermi serio e tutto si trasforma in parodia. Mi riprendo a tempo. “Aspetti, ho un’idea”. Chiamare a telefono la mia amica Pilar e chiederglielo. Dopo il canonico scambio di saluti (brevissimo, perché, oltre a non saper sciare e ad odiare lo shopping, possiedo anche una sanguigna
antipatia per i telefoni) passo al dunque.
“Senti, sono in un negozio per bebé, devo comprare un regalo per il figlio di Antonio. Ti ricordi se è maschio o femmina?”
Pausa: “Non dirmi che non te lo ricordi!”
“Non è che non lo ricordo, è che non l’ho mai saputo”
Pausa un po’ più lunga della precedente: “Vuoi dirmi che non ti ricordi di quella sera che ci mostrò l’ecografia e tu facesti il ridicolo?”
Nota su “fare il ridicolo” nella vita di Marco. Benché quest’espressione trovi veritiera corrispondenza in un senza fine di episodi, la gran maggior parte d’essi è relazionata a feste ed alcol. Nel caso citato da Pilar, invece, ero in pieno possesso delle mie facoltà mentali e l’episodio si cerne sulla foto di un’ecografia, una battuta e la scoperta che “figli” e “umorismo” sono vocaboli inconciliabili all’udito di un genitore, indipendentemente da quanto inclini allo scherzo questi normalmente siano.
“Si, mi ricordo di quella sera, e?”
“Ci mostrò l’ecografia e ci disse che era una femmina.”
“ah”
Mi accomiato da Pilar e torno alla commessa: “è una femmina.”
A partire da quel punto aveva tutte le informazioni necessarie in mano e poteva quindi vendermi qualunque cosa, probabilmente un invenduto dell’anno ’87. La scelta (sua) ricadde su un pigiama bianco-rosa la cui etichetta recitava . Alle mie rimostranze che la piccola in questione aveva solo 3 mesi, la commessa mi rispose “Si, ma i bebé crescono in fretta, bisogna comprare pensando al futuro”… e nonostante tutto… sono andato ad Andorra…
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